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Il divorzio imposto per rettificazione di sesso apre la strada alle Unioni Civili

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Con sentenza 11 giugno 2014 n. 170 la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso) e dell’art. 31 comma 6 del decreto legislativo 1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione, ai sensi dell’articolo 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69), nella parte in cui non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi, che provoca lo scioglimento del matrimonio (se il matrimonio è stato solo civile) o la cessazione degli effetti civili conseguenti alla trascrizione del matrimonio concordatario (se il matrimonio è stato celebrato in chiesa), consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima, con le modalità da statuirsi dal legislatore.

Bene. E ora che si fa?

Aspettiamo il Legislatore oppure andiamo avanti noi Avvocati con l’aiuto dei Giudici di merito?

Il caso ce lo ricordiamo. Un marito cambia sesso e diventa femmina.

Una volta pervenuta la sentenza di rettificazione di sesso, l’Ufficiale di Stato Civile ha (correttamente) applicato una norma di legge, l’art. 4 della legge 14 aprile 1982, n. 164, che testualmente prevede: «la sentenza di rettificazione di attribuzione di sesso […] provoca lo scioglimento del matrimonio celebrato con il rito religioso».

La coppia però si secca molto. Avevano scelto di impegnarsi reciprocamente ricorrendo all’istituto del matrimonio quindi ricorrono in giudizio per ottenere la cancellazione dell’annotazione di «cessazione degli effetti del vincolo civile del [loro] matrimonio», che l’Ufficiale di Stato Civile aveva apposta in calce all’atto di matrimonio, contestualmente all’annotazione (su ordine del Tribunale) della rettifica (da “maschile” a “femminile”) del sesso del marito.

Si arriva alla Corte di Cassazione avanti alla quale la coppia impugna il decreto della Corte d’Appello di Bologna che (in riforma della decisione di primo grado) aveva respinto la loro domanda.

Con ordinanza ben motivata la Corte di Cassazione solleva la questione di legittimità costituzionale delle norme sopra citate (tra le altre).

Investita della questione, la Corte Costituzionale ammette che il cosiddetto “divorzio imposto” sconta un deficit di tutela e che si traduce sostanzialmente nel sacrificio indiscriminato (in assenza di strumenti compensativi – che sono quelli che oggi ci aspettiamo dal legislatore): (a) del diritto di autodeterminarsi nelle scelte relative all’identità personale, di cui la sfera sessuale esprime un carattere costitutivo; (b) del diritto alla conservazione della preesistente dimensione relazionale, quando essa assuma i caratteri della stabilità e continuità propri del vincolo coniugale; (c) del diritto a non essere ingiustificatamente discriminati rispetto a tutte le altre coppie coniugate, alle quali è riconosciuta la possibilità di scelta in ordine al divorzio; (d) del diritto dell’altro coniuge di scegliere se continuare la relazione coniugale.

Il confronto a livello costituzione ha fatto prevalere il dovere istituzionale al rispetto della scelta di due coniugi che, nonostante la rettificazione dell’attribuzione di sesso ottenuta da uno di essi, intendono comunque non interrompere la loro vita di coppia.

Relazione che, seppur fuori dal modello del matrimonio (che, con il venir meno del requisito della eterosessualità non può proseguire come tale in base al dettato del nostro ordinamento essenziale) non è neppure (semplicisticamente) equiparabile ad una unione di soggetti dello stesso sesso perchè altrimenti equivarrebbe a cancellare, sul piano giuridico, un pregresso vissuto, nel cui contesto quella coppia ha maturato reciproci diritti e doveri, anche di rilievo costituzionale che, seppur non più declinabili all’interno del modello matrimoniale, non sono, per ciò solo, tutti necessariamente sacrificabili.

La Corte Costituzionale considera come, in linea di principio, è innegabile che la condizione dei coniugi che intendano proseguire nella loro vita di coppia, pur dopo la modifica dei caratteri sessuali di uno di essi, con conseguente rettificazione anagrafica, sia riconducibile a quella categoria di situazioni “specifiche” e “particolari” di coppie dello stesso sesso, con riguardo alle quali ricorrono i presupposti per un intervento del legislatore.

Ragionamento assolutamente condivisibile da chi vive un rapporto omosessuale e desidera condividere un impegno concreto.

L’approdo della Corte rappresenta certamente un importante passo avanti.

Quindi, ora o mai più si lavori ai diritti di tutti.


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