La giurisprudenza va letta e tradotta con attenzione sennò si rischia di offrire interpretazioni grossolane. Mi riferisco alla nota decisione della Corte di Cassazione civile n. 273 del 9 gennaio 2014 che ha suscitato vivacissimi dibattiti (ottima rilettura su Persona&Danno). Il caso è il classico. Genitori non sposati che si separano. Il Tribunale per i Minorenni (all’epoca era competente mentre oggi lo sarebbe il Tribunale Ordinario) decide un diritto di visita paterno che la Corte d’Appello riduce. Il padre si inalbera e ricorre alla Suprema Corte che rigetta il ricorso con un provvedimento molto scarno ma che può essere letto positivamente anziché riduttivamente. Mi spiego meglio. La Corte di legittimità (alias Corte di Cassazione) ha avallato la decisione della Corte d’Appello che aveva modulato le visite paterne con previsione di ampliamento dopo i quattro anni della figlia, in considerazione di elementi molto significativi. Ovvero considerando la tenera età di quella bambina, le sue abitudini di vita e soprattutto la lontananza di quel padre per motivi di lavoro. Ad una prima e superficiale lettura, l’interprete potrebbe pensare che fino ai quattro anni di età del bambino, un padre non ha le medesime possibilità di accudimento della madre. Ma attenzione, così non è. Vediamo perché. Il compito della Corte di Cassazione è stato quello di esaminare il percorso logico giuridico compiuto dal giudice di appello per capire se vi sia stata o meno (nella sua decisione) la violazione dell’applicazione della legge lamentata dal padre ricorrente. La risposta degli Ermellini è stata no, che la Corte d’Appello nel caso specifico aveva fatto un ragionamento giusto senza violare norme di legge laddove, con quella necessaria attenzione che è doverosa da parte del giudice della famiglia, aveva opportunamente soppesato gli elementi di fatto della vicenda (tenera età, abitudini di vita e soprattutto la lontananza del padre) ritenendo che nel caso specifico quel padre non sarebbe stato in grado di assolvere alle esigenze della propria bambina. E’ chiaro a questo punto quale sia il vero messaggio della Suprema Corte. Ed è di matrice opposta a quella che appare in prima facie. La Corte ha semplicemente confermato quanto da sempre gli operatori del diritto della famiglia (avvocati e magistrati) mettono in pratica: rapportare il diritto al caso specifico. I padri di oggi sono infatti, in generale, molto diversi dai nostri. Oggi i padri (se non sono completamente assorbiti dal lavoro) sanno accudire i figli come le madri (dallo svezzamento naturalmente). Sanno cambiare pannolini, far addormentare i figli, farli giocare, educarli, portarli dal pediatra, far fronte alle loro emergenze, preparare pappe e così via. Quindi (e per concludere), se posso immaginare una massima della decisione della Corte di Cassazione direi che il diritto di visita paterno alla prole di età inferiore a quattro anni va sì rapportato alle concrete esigenze della prole stessa ma, in particolare, alle specifiche capacità paterne.
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